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Dott.ssa Flaminia Fiory – Psicologa  
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Quando l’aula si svuota: la protesta dei genitori e la fragilità del sistema inclusivo

09/11/2025 18:45

Flaminia Fiory

cronaca e psicologia,

Quando l’aula si svuota: la protesta dei genitori e la fragilità del sistema inclusivo

È successo a Giussano, in Brianza: una classe intera ha deciso di non mandare i figli a scuola. Non per uno sciopero organizzato dai sindacati o per u

È successo a Giussano, in Brianza: una classe intera ha deciso di non mandare i figli a scuola. Non per uno sciopero organizzato dai sindacati o per un’emergenza sanitaria, ma per un compagno “troppo difficile da gestire”. 

Lo racconta PrimaMonza in un articolo che ha fatto discutere insegnanti, genitori e professionisti della salute mentale.

I genitori dei bambini, esasperati, hanno scelto la via estrema della protesta, denunciando un clima ingestibile in aula a causa dei comportamenti aggressivi di un alunno, descritto come impulsivo, oppositivo, difficile da contenere. 

Non è la prima volta che accade: in diverse regioni d’Italia si moltiplicano i casi simili, in cui il fragile equilibrio dell’inclusione si rompe e la scuola diventa il luogo in cui esplode un disagio che non si riesce più a tenere dentro.

Questa storia non parla solo di un bambino con difficoltà, ma di un sistema che non riesce a sostenere la complessità. 

Dietro la parola “inclusione” spesso ci sono classi sovraffollate, insegnanti di sostegno che cambiano ogni anno, dirigenti lasciati soli a gestire emergenze, famiglie divise tra paura e senso di impotenza. 

Da una parte c’è il diritto di un alunno con un profilo neurodivergente – forse con ADHD, o con difficoltà di regolazione emotiva – ad avere un’educazione adeguata e un ambiente accogliente. Dall’altra, c’è il diritto degli altri bambini a sentirsi al sicuro e dei docenti a lavorare in condizioni sostenibili. 

Quando mancano strumenti, formazione e risorse, questi diritti finiscono per scontrarsi, e l’aula si svuota: fisicamente e simbolicamente.

Il caso di Giussano ci obbliga a una domanda più profonda: cosa significa davvero includere? 

Perché l’inclusione non è mettere tutti nello stesso posto, ma permettere a ciascuno di starci bene. Un bambino con difficoltà comportamentali non è un “problema da risolvere”, ma una richiesta di aiuto del sistema stesso. Non basta tenerlo in classe per dire che l’inclusione funziona. 

Bisogna creare un contesto che regga la sua fatica, che lo aiuti a regolare l’emotività, che protegga la salute mentale di tutti: la sua, quella dei compagni, quella degli insegnanti.

Eppure la scuola italiana, pur vantando una lunga tradizione di integrazione, oggi si trova in crisi. La legge 104 ha aperto la strada, ma la realtà quotidiana mostra una distanza crescente tra i principi e le possibilità. 

L’inclusione, per essere reale, ha bisogno di adulti formati, di psicologi scolastici, di alleanze tra scuola, famiglia e servizi territoriali. Ha bisogno di spazi adattati, di tempi flessibili, di linguaggi nuovi. Quando questi ingredienti mancano, la scuola diventa il luogo dove le fragilità esplodono. E chi ne fa le spese è spesso il bambino più fragile, quello che più avrebbe bisogno di contenimento e di sguardi competenti.

Nel frattempo, gli insegnanti si sentono soli, le famiglie esasperate, i compagni confusi. E la salute mentale di tutti ne risente. 

È un circolo che si alimenta: il disagio genera rifiuto, il rifiuto genera isolamento, l’isolamento aumenta il disagio. Rompere questa spirale richiede coraggio e una visione condivisa. Significa smettere di chiedersi “di chi è la colpa?” e iniziare a chiedersi “cosa possiamo costruire insieme?”.

La vicenda di Giussano è un monito ma anche un’occasione: ci mostra che l’inclusione non si improvvisa e che la neurodivergenza non può essere trattata come un’anomalia da contenere. È parte della realtà umana e scolastica, e chiede strutture capaci di comprenderla. 

Quando la scuola accoglie davvero le differenze – con competenza, con cura, con strumenti adeguati – diventa non solo luogo di istruzione, ma di civiltà.

Perché una scuola che funziona non è quella in cui tutti si comportano allo stesso modo, ma quella in cui ciascuno trova il proprio spazio per crescere, senza che nessuno debba restare fuori.